Era un macigno sul petto l'idea dei santini dipinti a olio con la mia faccia secca, la testa scotennata, le vecchie che mi baciavano e mi chiedevano i miracoli e mi mettevano nel reggiseno tra le zinne a lutto.
«Non voglio diventare santo!» ripetevo piangendo.
«Che stai dicendo? Quale santo?» chiedevano i miei genitori senza capire.
L’ossessione della santità mi sfiancava e penalizzava il mio rendimento scolastico: ero distratto, stanco, nervoso. Nicoletti durante la ricreazione sussurrava qualcosa agli altri compagni, mi indicava, sghignazzava arricciando il naso sui denti sporgenti: compresi che faceva battute sui miei capelli arruffati, lo tirai da parte, scagliai due pugni su quella faccia da coniglio e lo stesi a terra.
«Che ti ho fatto?» domandò Nicoletti asciugandosi il rivolo di sangue che gli usciva dal naso.
«Lo sai cosa hai fatto. Ti ho sentito. E poi tu hai la faccia da coniglio.»
I pugni sulla faccia di Nicoletti mi avevano appena salvato da un eventuale processo di santificazione. La maestra mi ordinò il castigo dietro la lavagna per l’intera giornata. Ero salvo dalla santità, le divinità mi avrebbero schifato come evangelizzatore per il resto della vita.
L’indomani Nicoletti e altri due suoi amici mi aspettarono in Piazza dei Martiri, mi pestarono di botte, mi stesero a terra, mi presero a calci, mi sputarono a turno. Non rivelai a nessuno chi aveva trasformato la mia faccia in un polpettone di manzo, del resto non era il dolore fisico a tormentarmi, ma la consapevolezza che quella notte, una volta martirizzato, sarebbe bastata un’apparizione a condannarmi per sempre alla santità. Notte insonne. Per fortuna fino al mattino nessuna divinità si palesò. L’indomani allo specchio comparve un bambino con due occhi neri, il labbro superiore gonfio e spaccato, un taglio sullo zigomo sinistro. Un bambino livido ma salvo dalla santità.
Questa è una storia di fantasia
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