Due giorni dopo accompagnarono me e Anna in periferia presso un istituto religioso: lunghi corridoi, decine di stanze, grandi finestre, un via vai silenzioso di suore e infermiere. Lì incontrammo Augusto. Non era più il bambino della foto: aveva diciassette anni, stava seduto in silenzio davanti a una grande finestra, guardava fuori verso un altrove a noi ignoto. «Lui è Augusto» disse la mamma. Non aggiunse altro e si allontanò.

«Perché non parla?» domandò Anna.

«Non ha mai parlato» replicò nostro padre.

«Possiamo giocare con lui?»

«No tesoro. Augusto non può giocare.»

«Uffa!» disse Anna come fosse alle prese con un giocattolo rotto. Si allontanò e iniziò a correre su e giù nel lungo il corridoio.

Nei giorni a seguire Anna, più piccola di me, affrontò quell'incontro senza ripercussioni, parlava di Augusto come l'amico di una vacanza al mare. Per me non fu così: un profondo smottamento interiore mi trascinò dalla parte di Augusto, sentii l'emergenza di illustrare la vita che lui non poteva vivere. Quando la precettrice ci invitava a disegnare, rappresentavo Augusto impegnato in varie situazioni per lui impraticabili: "Augusto gioca a pallone", "Augusto gioca a nascondino", "Augusto rincorre le farfalle", "Io e Augusto sotto l'arcobaleno". Disegnavo su centinaia di fogli la vita alternativa di Augusto, la vita che avrei desiderato per lui e per me. È per Augusto che sono diventato un pittore.

 

Appena maggiorenne troncai ogni comunicazione con i genitori, lasciai casa e andai in città a convivere con altri studenti. Il rapporto con Anna si dilatò, i rari incontri evolvevano in litigi. Lei era molto indulgente con i nostri genitori: «Avresti fatto lo stesso al posto loro» ripeteva. Ma non condividevo il suo punto di vista: riuscivo a mettermi solo al posto di Augusto. Non ho più voluto una famiglia, una mia intendo, una da costruire da zero.

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Questa è una storia di fantasia
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