Mi fanno paura le famiglie felici perché, sotto una coltre di menzogne e omissioni, lo era stata anche la nostra.

 

Qualche giorno fa ho rivisto Augusto. Gli ho raccontato tutto, come sempre: le paure, i dubbi, le speranze. Ho affidato al suo silenzio le mie più intime rivelazioni così come, senza niente da perdere, si affidano i desideri a una stella cadente. Più tardi mi sono seduto accanto a lui e su un blocco note ho disegnato varie cose per scoprire se aveva qualche reazione alle figure.

«Guarda qui,» gli ho detto, «questa è la nostra famiglia. Vedi? Ci siamo tutti. Ma è solo uno scarabocchio. Non è mai stata così la nostra famiglia. Tutti insieme non ci siamo stati mai.»

Ho stracciato il foglio, ho avvertito la forte nausea delle parole e, provando vergogna, ho invidiato ad Augusto la capacità di guardare il mondo senza dover mai parlare. Gli ho invidiato il silenzio. Ho buttato i fogli all'aria, l'ho abbracciato forte, fino a sentire il suo cuore che mi batteva dentro. Sono rimasto così per non so quanto tempo, a occhi chiusi.

 

All'imbrunire le infermiere hanno portato Augusto al letto, sono entrato nella sua stanza, lui dormiva: non l'avevo mai visto così, chissà se sognava. Sono tornato davanti alla finestra, ho preso a calci le due sedie sulle quali poco prima io e Augusto eravamo seduti. Le suore mi hanno invitato a uscire.

 

Fuori era quasi buio, su ogni luce del viale sbocciava un delicato bagliore, ho evitato di prendere i mezzi, ho preferito camminare fino a casa per stancare i muscoli e scaricare la tensione. L'insonnia mi ha scacciato da un groviglio di lenzuola, ho messo sul cavalletto una tela nuova, che è rimasta vuota, bianca, fino al mattino. Ho mandato giù il caffè, alle otto ero già sul tram, appeso con una mano alla barra di sostegno, stretto tra un signore che leggeva il giornale e una signora con gli occhiali scuri.

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