Uno dei piedini era avvolto in una fasciatura da cui emergeva il bagliore di una piccola luce rossa. Il viso era quasi interamente coperto da un grosso cerotto che reggeva il tubo immerso nella trachea. Quella era mia figlia, appena nata e già tormentata dall'esistenza. Potevo solo guardarla, non mi era consentito sfiorarla. Suonò un allarme, mi voltai verso l'infermiere.

«Niente, niente, non si preoccupi. È normale.»

L'infermiere pigiò un pulsante di uno degli apparecchi, interruppe l’allarme, tornò a sistemare siringhe e cannule su un carrello d'acciaio. Ascoltavo echeggiare lo stesso allarme in lontananza, nella gola del corridoio del reparto, suoni diversi prodotti dalle altre incubatrici presenti nella stanza. Ogni suono avvisava che il neonato stava correndo qualche rischio. Un caos miniaturizzato che ti aspetteresti in un aeroporto internazionale, con continui ding dong e avvisi di arrivi e partenze. Il silenzio che avevo immaginato, lì non esisteva.

«Posso scattare qualche foto con il cellulare? Sua madre è ancora in ospedale e...»

«Sì, certamente. Senza flash però!»

A scattare le foto mi sentivo un idiota, non meno di quei turisti del disastro che si recano nei luoghi dei più tragici fatti di cronaca o delle sciagure raccontate ai telegiornali. Sentivo però il dovere di portare quelle immagini ad Elena; ritenevo di essere, rispetto a lei, ingiustamente privilegiato.

Celeste si voltò verso di me, aprì gli occhi, mi trascinò nel mare limpido e gelido del suo sguardo azzurro-cenere. Un brivido mi scivolò sulla pelle. Continua a guardarmi ti prego, le dicevo telepaticamente. Accoglimi ancora nel tuo sguardo. Ti prego non voltarti, non battere le palpebre su questo miracolo.

 

Più tardi il primario, a cui faceva da ombra una giovane dottoressa, mi condusse in un piccolo studio. Risposi a decine di domande. Ebbi l'impressione di essere in un commissariato più che in ospedale. Il primario disse: «La situazione è molto critica.

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