Solitamente i prematuri nati dopo la trentaduesima settimana respirano autonomamente. Celeste invece non ce la fa. Dobbiamo attendere almeno quarantotto ore per assicurarci che sia fuori pericolo. Mi dispiace...»
Nel parcheggio dell'ospedale facevo fatica a ritrovare la mia auto, sia perché era buio, sia perché le lacrime mi annebbiavano la vista. Una donna tra i passanti mi domandò se avessi bisogno di aiuto.
«No grazie... non si preoccupi. Va meglio, va meglio...» assicurai allargando lo spazio tra i miei passi. Desideravo sparire prima possibile. Attraversai di nuovo la città, ero una specie di Caronte nel fiume del traffico. Raggiunsi Elena in ospedale quasi un'ora dopo. Le mostrai le foto di Celeste e, senza volerlo, travasai in lei tutta la mia angoscia. Le immagini avevano catturato solo gli aspetti peggiori della situazione, non potevano riprodurre lo sguardo vivo di Celeste, il piccolo miracolo che mi aveva incantato. Elena pianse. Colpì la mia mano per farmi mettere via il cellulare. Si alzò senza parlare, si avviò nel corridoio, si lasciò ingoiare dalla porta muta della stanza.
Guidando verso casa notai un tabaccaio ancora aperto. Parcheggiai in doppia fila, forse per la prima volta in vita mia. Cominciavo a credere che il dolore fosse la licenza per piccole infrazioni.
«Avete fiocchi rosa?»
Mi indicò un paio di scatole sul piano più alto dello scaffale: «Abbiamo solo questi.»
«Va bene quello. Lo prendo.»
«È lei il papà?»
«Sì, sono io.»
Il tabaccaio spolverò la superficie della scatola con uno straccio, me la porse: «Auguri!»
Avrei raccontato anche al primo estraneo che mia figlia era in una incubatrice tra la vita e la morte, e che ero disperato. Invece non dissi nulla. Chissà che idea si farà di me quest'uomo, pensai. Un uomo appena diventato padre non può essere triste.
Giunto a casa, assicurandomi che nessuno fosse nei pressi del mio pianerottolo, appesi il fiocco rosa sulla porta.