A ravvivarlo solo decine di foto di bambini che ce l'avevano fatta, disegni e ringraziamenti dedicati ai medici e agli infermieri del reparto. Una parete di ex voto laici i cui messaggi erano molto simili: "Pesavo appena settecento grammi, ho rischiato di morire, ma ora grazie a voi sono un bel bambino sano e in carne, grazie di cuore da me, mamma e papà". Non c'era più spazio per altre cornici sulla parete. Era forse un segno del destino? Era terminata la quota di bambini destinata alla salvezza? Scacciai i cattivi pensieri immaginando la foto di Celeste e un messaggio da appendere sulla parete di fronte, ancora vuota: “Grazie di cuore a tutti i medici e agli infermieri della TIN, anche da parte di papà Paolo e mamma Elena”.

 

Si aprì una porta, sgusciò un infermiere: «Prego, può entrare. Per favore lasci fuori il cappotto e la valigetta.»

L’infermiere mi condusse davanti a un lavandino: «Segua le istruzioni scritte qui», disse indicando un foglio appeso con lo scotch sulle maioliche. Insaponai le mani due volte, arrotolai i polsini della camicia e lavai bene anche gli avambracci, indossai un camice di carta verde, una cuffia usa e getta. Ero pronto. L’infermiere mi condusse lungo un corridoio profondo, le pareti di vetro ci separavano da una serie di incubatrici circondate da apparecchi luminosi e grovigli di cavi. Entrai in una stanza dalle pareti interamente ricoperte da maioliche bianche, priva di finestre e illuminata solo da luci artificiali. Quattro incubatrici erano poste ordinatamente in corrispondenza degli angoli. Al centro un piccolo tavolo intorno al quale un paio di infermiere prendevano appunti e compilavano cartelle cliniche.

«Ecco, Celeste è qui.»

L'incubatrice da una certa distanza pareva vuota. Mi avvicinai. Celeste era un corpo piccolissimo affondato nel bagliore di una luce azzurra, nutrito e controllato da tubi trasparenti di gomma zigrinata, tubi di gomma dura, macchine dalla tecnologia complessa.

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