Attraverso il vetro dell'incubatrice mi specchiai per la prima volta nella mia paternità e in un terrore che non mi era mai appartenuto. Un essere minuscolo: la testa piccola come un'arancia, un braccio che poteva essere l'indice della mia mano. Fui colto dal terrore che un corpo così piccolo non riuscisse a contenere tutta la vita necessaria, né un mantice di polmoni in grado di respirare. La mia attenzione si impigliò nella cannula che penetrava nella piccola bocca incerottata, sul sottile tubo della flebo. Elena piangeva. Tentai di abbracciarla e tranquillizzarla. Il dolore del taglio si faceva sentire via via che l'effetto dell'anestetico svaniva.

«Ora dobbiamo andare» disse uno dei paramedici. Concessero ancora qualche secondo al nostro sguardo, spinsero l’incubatrice fuori dalla stanza.

 

Elena fu riportata nel suo letto. Mi lasciarono entrare nella camerata nonostante le visite a quell'ora non fossero ammesse. Eravamo infatti nella fascia oraria in cui i neonati erano accanto ai letti delle proprie madri. Accanto a ogni letto c'era una culla. Accanto al letto di Elena, seduto in silenzio nel mezzo di un cono d'ombra, c'ero invece io. Una delle signore spezzò il silenzio: «Elena, come è andata?»

«Hanno portato Celeste in un altro ospedale. Qui non avevano più spazio.»

«Vedrai andrà tutto bene» assicurò la donna stringendo il figlio al seno. Rimanemmo ad ascoltare le gioie delle madri intorno a noi, che cinguettavano sul bordo dei propri nidi, che sussurravano frasi tenere ai propri figli. Elena taceva e guardava davanti a sé, attraverso i muri, tacevo anch’io.

«Non restare qui, io sto bene» disse Elena dopo un po’. «Vai da Celeste, telefonami appena sai qualcosa.»

Le strinsi forte l'avambraccio, le carezzai la testa, un bacio e corsi via.

 

Attraversai la città per raggiungere Celeste. Impiegai molto a trovare la TIN. La sala di attesa era un corridoio angusto.

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