C'era sempre un pavimento appena lavato su cui non potevi camminare, un vetro della finestra che non potevi sfiorare, un bagno in cui non potevi fare la doccia senza che lei venisse a riepilogare il numero di gocce d'acqua cadute sul pavimento o peggio ancora gli schizzi sullo specchio. Finivo per sbottare: «Mi chiedo come una madre che ha perso da poco una figlia possa dare tanta importanza a simili stronzate!»
Non capivo che forse voleva solo mettere a posto qualcosa dentro se stessa, senza riuscirci. Con una scopa, un aspirapolvere e una pezza da spolvero non si possono spostare macerie e ricostruire edifici. Inoltre la presenza di un cane in un appartamento poco si concilia con le manie igieniste, così Elena mi ripeteva ogni giorno che dovevo sbattere Napoleone fuori casa.
«È un problema tuo!» gridava seccata quando facevo presente che non avrei saputo dove portarlo, che il cane avrebbe sofferto, che avrei sofferto anch'io perché ero profondamente affezionato a Napoleone. Per evitare discussioni tendevo a stare fuori per lavoro fino a tardi. Il lavoro era infatti l'unico alibi con cui potevo riappropriarmi dei miei spazi. Prendevo appuntamenti anche in orari scomodi pur di stare lontano da casa. A volte tornavo quando Elena stava già dormendo. La osservavo a lungo prima di spegnere la luce. Il sonno operava su di lei una sorta di esorcismo liberandola dal carattere aspro e velenoso, lasciando scorgere la fragile anima di cristallo di cui sbadatamente, ancora una volta, mi innamoravo. Era forse proprio qualche spigolosità della sua anima a squarciare ogni volta la sacca del mio rancore, che si svuotava fino ad annullare il peso che per l'intera giornata avevo custodito nel petto. Ma questo incantesimo ogni mattina svaniva durante l'ebollizione dell'acqua della moka, quando le nostre mute solitudini, senza mai incrociare gli sguardi, si incontravano in cucina e condividevano a malapena l'amarezza di un caffè.