Elena lo chiamava “bello di mamma” e la sera, quando eravamo sul divano a guardare la tivvù, lo cullava tra le braccia. Aveva continuato a coccolarlo anche durante la gravidanza, proprio come un figlio. Ma, subito dopo la morte di Celeste, Elena attribuì al nostro cane una qualche responsabilità per il lutto che ci aveva colpiti, come se gli volesse rimproverare la colpa di non essere morto al posto di nostra figlia, e aggrediva anche me per ogni danno provocato da Napoleone. I guai non erano mai pochi: tende sfilacciate, ciotole rovesciate, oggetti masticati. Elena si lamentava quotidianamente dei peli sparsi sul pavimento, del fatto che il cane dormisse sul divano, del suo abbaiare per ogni rumore esterno: «Porta via questa merda di cane!» gridava con le braccia irrigidite e i pugni chiusi, «non lo sopporto più! Portalo via o lo butto dalla finestra! Bastardo!»

Questo accadeva tutti i giorni, tutti i santi giorni. A volte perdevo il controllo e gridavo anch'io, ma più spesso me ne restavo in disparte schivando i lapilli di quella rabbia incontrollata. Napoleone invece, impaurito dalle grida, tentava di infilarsi sotto il letto, sotto il tavolino da fumo, oppure graffiava le porte nel tentativo di aprirsi una via di fuga, provocando così altri danni che Elena non mancava di farmi notare. Napoleone insomma non era più semplicemente il nostro cane, ma una sorta di mio alter ego; quando Elena insultava lui, si riferiva a me.

Elena aveva sviluppato un'ossessione per le pulizie di casa. Non faceva altro. Ormai la sua voce era il rumore dell'aspirapolvere, il suo odore quello dei detersivi. Si alzava presto e cominciava a lavare i pavimenti, a spolverare mobili e oggetti, a spostare libri, scatole, sacchi. Rovesciava le sedie sui tavoli, arrotolava i tappeti, toglieva le tende dai bastoni, rendeva la casa sempre più inospitale e scomoda. E fredda. Le finestre erano spesso spalancate anche quando fuori era freddo.

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