Caricai le valigie nel bagagliaio, lasciai accucciare Napoleone sul sedile posteriore; guidai per qualche ora in cerca di una nuova vita per finire, come prevedibile, a casa dei miei genitori. Rividi Elena solo alcuni mesi dopo, davanti a un giudice che consultava le carte per la separazione consensuale. Non posi obiezioni alla sua richiesta di separazione, anch'io ero sfiancato dal nostro rapporto. C'erano state ogni giorno liti furibonde che evolvevano nello stesso finale: lei, appartenente di sicuro a qualche strana famiglia di carapaci, si ritirava sotto la dura scorsa dei suoi lapidari “non mi parlare più” e riusciva a non rivolgermi la parola per ore o giorni, o comunque per tutto il tempo che riteneva commisurato ai miei veri o presunti torti. La rabbia in poco tempo l'aveva consumata fisicamente e la sua magrezza assomigliava a quelle basse maree che rivelano aspetti inconsueti di un fondale altrimenti invisibile. Una mappa di nervi sempre tesi emergeva dalla pelle, dalla tensione del collo, reclamando un'interpretazione urgente, gridando al mondo un messaggio da decifrare. Quella rabbia così prorompente, figlia minore dei terremoti e dei vulcani, si tramutava sempre più spesso in prepotenza. Qualunque mia obiezione, qualunque mio rifiuto, qualunque mia affermazione che non rispettasse i canoni da lei imposti e mai chiaramente noti, era il pretesto per scatenare una lite feroce e interminabile. Nonostante tutto continuavo a giustificarla, perché il lutto che avevamo subito era una catastrofe e tutto il resto appariva trascurabile.

 

Napoleone l'avevamo preso da cucciolo, era così piccolo da entrare nel palmo di una mano. Un meticcio incrociato con tutte le razze di cane che possono venirti in mente, con l'unica certezza di tendere ad una taglia medio piccola: un po' volpino, un po' bassotto, un po' spinone, un po' pinscher. L'avevamo cresciuto con affetto, tenuto sul nostro letto quando fuori imperversavano i peggiori temporali.

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