Preparai un panino, ma non lo mangiai. Preparai un caffè con tanto zucchero, nel tentativo di riacquistare un po' di forza nei muscoli. Fui assalito dal timore che qualcuno del palazzo potesse bussare alla porta per farmi gli auguri, allora mi precipitai a staccare il fiocco, lo poggiai sul tavolino da fumo. Mi stesi sul divano. Presi il fiocco tra le mani, ci giocherellai per ore e forse quasi l'alba mi addormentai.
Elena fu dimessa con qualche giorno di anticipo. Il suo comprensibile desiderio di visitare Celeste era stato esaudito. Il taglio cesareo le doleva, camminava lentamente. Il percorso a piedi in quelle condizioni sembrò molto lungo. Raggiungemmo l'incubatrice. Le condizioni di Celeste erano improvvisamente peggiorate. Un ventilatore polmonare la faceva vibrare, scuoteva le sue piccole costole contro la pelle tesa. Celeste era stata sedata ed appariva assai meno attiva rispetto a quando l'avevo visitata da solo. Non potevamo fare nulla, nemmeno sfiorarla. Vederla vibrare in quel modo ci atterriva. Gli infermieri infilavano le mani negli oblò dell'incubatrice e provvedevano ad effettuare i necessari controlli: misuravano la temperatura, la pressione, cambiavano il pannolino.
«Se non vi impressiona potete restare.»
Facemmo un cenno di approvazione con la testa e restammo a guardare. L'infermiere praticò un piccolo foro sul tallone di Celeste e poi lo raccolse con un tubicino. Ci disse che Celeste subiva questi prelievi di sangue diverse volte al giorno.
Tornando a casa restammo quasi tutto il tempo in silenzio. Entrambi avevamo cominciato a vivere l'esperienza di Celeste come un fatto del tutto privato, individuale. La notte non riuscivamo a dormire e ci sorprendevamo a pregare, con quelle preghiere annacquate di chi ha sempre archiviato la religione in una cassetta del pronto soccorso: le parole sbagliate, i vuoti di memoria; preghiere recitate senza fede per un dio sordomuto.