Elena, seguendo le istruzioni di una dottoressa, aspirava quotidianamente il latte dal proprio seno. Lo versava in contenitori cilindrici. Su ogni contenitore applicava un'etichetta con la data e l'orario del prelievo, poi lo riponeva nel congelatore accanto agli altri. Una sorta di rito, l'unico con cui Elena poteva concretizzare la propria maternità. Ogni giorno trasportavamo i flaconi in un frigo da campeggio, poi lo consegnavamo alle infermiere che provvedevano a pastorizzarlo e a raccoglierlo in una banca del latte. Tutti i neonati del reparto ricevevano il latte da una sorta di super mamma. Elena da una parte era felice che il suo latte potesse essere utile a tutti i neonati della TIN, dall'altra le dispiaceva che non potesse arrivare tutto a Celeste: del resto era l'unico mezzo con cui avrebbe potuto raggiungerla e trasfonderle il suo affetto.
Il ghiaccio, il gelo, sembravano gli elementi dominanti della nostra vita. Eravamo nel pieno di un'era glaciale privata che aveva invaso le stanze della nostra casa, le strade da noi percorse, il reparto dell'ospedale. Tutto il mondo.
Nonostante le prime difficoltà, la situazione di Celeste migliorò rapidamente. Potevamo farle visita solo nel pomeriggio e, senza confessarcelo, speravamo ogni giorno di essere accolti da un nuovo progresso. Dopo meno di due settimane la trovammo estubata. Celeste respirava finalmente da sola, non aveva più quel fastidioso cerotto sulla bocca necessario ed evitare che la cannula si muovesse. Riuscivamo a vedere il suo viso, potevamo giocare alle somiglianze: ha il tuo naso, la mia bocca, il tuo sorriso, gli occhi di nonna, le tue mani, i miei capelli.
Giorno dopo giorno perfezionavo il percorso che da casa ci conduceva fino all'ospedale. Di tanto in tanto scoprivo scorciatoie, strade senza semafori, vie meno trafficate. Rispetto ai primi giorni riuscivo a guadagnare una media di circa venti minuti.