Come dire che uno è più valido dell’altro, che uno è bello e l’altro è brutto, e viceversa? […] La palestra critica non è la fiera del bestiame, in cui la vacca più sana e più grossa viene venduta al miglior offerente (2).

Questo è un caso complesso, che mette a confronto non solo autori «con motivazioni e tecniche di scrittura filmica assolutamente personali», ma anche cinematografie diverse, alcune delle quali non hanno una forte tradizione del rifacimento come quella americana. Bisogna poi riconoscere che il plot fornito da Pierre Chenal è basato su «un gioco delle parti fortemente codificato nella tragedia e nel melodramma», dunque una storia già raccontata e destinata ad esserlo di nuovo e sempre. «Una “riscrittura” sarebbe inutile, non restano ai registi in questione che le infinite possibilità della “creazione”: a loro l’opportunità di riplasmare il materiale narrativo e di farne cosa nuova» (3).

Il cinema di genere parte dagli stessi presupposti e non rinnega, certo, il concetto di autore: nasce e si sviluppa in una continua interazione tra contributo individuale, continuità storica e patrimonio collettivo. Convenzioni narrative, temi ed immagini che “ritornano” vengono a costituire un vero e proprio repertorio destinato ad essere di continuo aggiornato ed arricchito di nuovi apporti, senza, però, che le dinamiche di base del racconto vengano minate. Costanti e varianti tra espressione creativa individuale ed intrattenimento popolare in un sistema di filoni narrativi che è espressione, su larga scala, del concetto di “remake” (4).

Dunque, evitando di incanalarci esclusivamente sui binari del giudizio estetico, tentiamo di scoprire le diverse chiavi di lettura offerte dai gruppi di remakes, soprattutto quando questi vengono analizzati nel contesto del genere a cui appartengono.

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