Numerosi, come sempre, i tentativi di trovare definizioni per l’originale e per il remake, sia da parte dei detrattori che degli estimatori. «Post-cubista, post-picassiano» il film di Godard; «post-iperrealista, neo-classico con “contaminazioni” fluttuanti ed esteticamente nomadi e voraci» quello di McBride.

Tali definizioni, pur nel loro eccesso, ci ricordano che i due film hanno molto a che fare con la pittura, con la figurazione, con «l’arte cosiddetta astratta del nostro tempo; la loro affabulazione e le loro valenze espressive sono di tipo più figurativo, o non figurativo, che narrativo nel senso stretto del termine» (22). Eppure, come sostiene David Willis, il film di McBride «dimostra il compromesso pratico di un film che conserva qualcosa della “svantaggiosa” qualità del film di Godard, ma privilegia la struttura narrativa più dell’originale francese». Insomma, McBride dimostra indubbiamente molto coraggio: Fino all’ultimo respiro è un film «completamente inusuale per un remake hollywoodiano», soprattutto perché riveste un’importanza storica rilevante di cui è difficile sostenere il confronto (23).

Confrontare i due film con troppa superficialità porta inevitabilmente a trascurare le motivazioni che spingono McBride al rifacimento, il quale, adesso più che mai, non può certo essere dettato da scelte esclusivamente commerciali. Secondo Gianni Canova il film ha ben altre intenzioni:

Breathless di Jim McBride non si propone di restaurare con rigore filologico il modello godardiano cui si ispira, quanto piuttosto di produrre in un nuovo contesto gli stessi effetti che il modello aveva a sua volta prodotto sul pubblico. E, almeno in parte, ci riesce. Solo che i Catoni della critica non se ne rendono conto e stroncano il film. Hanno in mente le rotture linguistiche del Godard del 1959 e non vedono quelle di McBride del 1983 (24).

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