Di primo acchito verrebbe la tentazione di attribuire la novità del film al miscuglio operato da Leone con il western e con un soggetto giapponese, ma non è affatto qui la sua originalità. Anche il cinema americano, infatti, si appropria spesso di soggetti giapponesi, e non per questo contraddice i propri piani di produzione. Un buon esempio è un western del 1960, di John Sturges; si tratta di I magnifici sette, esplicitamente basato su I sette samurai, sempre di Akira Kurosawa. Sturges sostituisce al Giappone feudale il Messico del secolo scorso, e rimpiazza i ritmi lenti delle espressioni teatrali giapponesi con tempi ispirati ai film d'azione, avvalendosi di un montaggio sincopato, vivace.
Sergio Leone importa dall'America uno scatolone carico di cinturoni, pistole, cappelli, speroni e, come se avesse smarrito le istruzioni del genere, mette in campo un'interpretazione tutta personale.
La grande differenza rispetto a Sturges è costituita dal fatto che Leone non deve rispettare alcuna regola di genere, essendo proprio lui a gettarne le fondamenta. In questo senso lo spaghetti western rivela la sua componente di “genere d'autore”, tanto più se consideriamo la vita breve di questo filone, molto legata a quella del suo “inventore”, e che comincia a declinare nei primi anni Settanta. Tutti i successivi tentativi di imitazione generano prodotti per lo più stereotipati, ricalcati sul modello di Leone, ma riescono comunque ad ottenere un grande successo ai botteghini, segnando così uno dei periodi economicamente più felici del cinema italiano.
Tuttavia il western “de-americanizzato” non è un'espressione soltanto italiana, e un antecedente illustre si riscontra nella produzione tedesca, che realizza un ciclo basato su soggetti tratti dai racconti dello scrittore Karl May. Sappiamo inoltre che, quando Leone realizza il suo primo western, in Spagna esistono già venticinque pellicole dello stesso genere (4).