Proprio a causa di tutti gli elementi fin qui elencati Lucy Fisher, appoggiandosi alla definizione fornita da James Collins, definisce il film di Almodóvar come un “simulacro postmoderno”.

Collins sostiene che il postmodernismo, facilmente scambiato per un'espressione nostalgica, dovrebbe invece essere interpretato come lo sforzo di riallacciarsi alla «continuità morfologica» di una cultura specifica. L'uso di stili del passato in questo caso è motivato non dal tentativo di fuggire dalla realtà circostante, ma dal desiderio di comprendere la propria e l'altrui cultura come dignitosi prodotti di «codifiche» antecedenti (28). Un altro dei motivi per cui il film di Almodóvar può essere considerato postmoderno è che la sua visione intertestuale è fortemente parodica, e questo, stando alle conclusioni del paragrafo precedente, non ci stupisce. In Tacchi a spillo gli spunti ironici e melodrammatici sono spesso indistinguibili, anche a causa di una forte mescolanza tra “realtà” e fiction.

Nel 1958 Cheryl Crane, figlia dell'attrice Lana Turner, pugnala l'amante di sua madre. L'eco di questo fatto di cronaca si condensa negli omicidi che Rebecca compie in Tacchi a spillo, e che costituiscono il perno dell'intera trama del film. In questo modo Almodóvar rende un duplice omaggio: alla narrativa di finzione di Sirk e alla memoria del tragico evento di cronaca in cui sono coinvolte l'attrice Lana Turner e sua figlia.

La Fisher segnala un'altra differenza tra i due film. Pur privilegiando lo spunto reale fornito dalla cronaca hollywoodiana, Almodóvar tralascia il tema del razzismo, che invece predomina nel film di Sirk.

Ma il distacco non è poi così grande se consideriamo che a Sirk il tema del razzismo interessa soltanto per «la ricerca di identità che esso implica» (29). Ecco allora che, introducendo nel film il personaggio del giudice travestito (Dominguez), Almodóvar ripropone di nuovo una ricerca di identità, anche se di carattere prevalentemente sessuale.

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