Sempre secondo Pellizzari, il parodista «non deve far altro che indicare e introdurre in scena certe varianti del “genere” e lasciare che lo spettatore crei da sé l'occasione di divertimento o di critica distruttiva» (18).

Quest'ultima affermazione trova un riscontro immediato in tutti quei “generi” che, pur non dissociandosi da una forma di remake generico, godono di un altrettanto generico statuto di parodia di “generi” preesistenti. Pensiamo ai western spaghetti rispetto al western classico, ai pepla rispetto ai kolossal classico-mitologici, all'orrorifico mediterraneo rispetto a quello anglosassone e, per rivi minori, ai nostrani recenti imitatori delle fughe da New York, dei notturni guerrieri urbani, delle discomusicate o delle flashdanzate (19).

L'interpretazione di Pellizzari, a differenza di quella di Calabrese, ci presenta i generi cinematografici italiani come fossero già di per sé una parodia di quelli americani, e aggiunge una considerazione molto interessante:

[…] la parodia (e forse questo avremmo dovuto sottolinearlo prima) non si limita al travestimento di un'opera d'arte, a una versione burlesca della stessa; mira anche più genericamente o più sottilmente all'imitazione deliberata di uno stile – quello di uno scrittore, di un regista, di un attore – e qui non potranno più soccorrerci repertori di titoli o di soggetti, né potremo continuare ad aggirarci tra i meandri del “genere”: ché ora si tratta di autori, con tutto il rispetto che ne consegue (20).

Questo, in poche parole, significa che il buon parodista vede più con gli occhi del cinema che non con i propri occhi, e questa sua attività non merita di essere letta soltanto negativamente.

Anche Calabrese afferma che pure la degenerazione e la deformazione, qualora fossero trasformate in «princìpi coscienti di creatività», finirebbero per garantire esiti interessanti.

arrow_back_ios11/27arrow_forward_ios
menu_bookCondividi su FacebookCondividi su WhatsApp