E secondo lo stesso principio ci sono tutti i ruoli tematici e tutti i motivi figurativi: solo portati al limite, eccedenti, iperbolici. Ma l'iperbole semionarrativa e discorsiva fa sì che i singoli motivi resi altamente riconoscibili superino come forza il principio della coesione interna del genere. Così ogni nuovo film del filone, lungi dal riproporsi come concorrenza individuale e variata di poco rispetto all'archetipo, si offre come sommatoria di motivi. Il risultato, a lungo andare, è la degenerazione totale (14).

Questo ovviamente vale per tutti i generi, i cui film svelano sempre una forzatura sui limiti di tolleranza. Proprio mantenendo l'attenzione sul film di Leone, possiamo scorgere in esso un altro esempio di quei caratteri deformanti abbastanza radicati nella tradizione cinematografica italiana. Ci riferiamo principalmente alla colonna sonora (15), che riprende al limite dell'ironico le atmosfere del duello finale di Mezzogiorno di fuoco, «che pure è come un grande tramonto del western» (16).

Il cinema di Dario Argento segue il medesimo principio, che potremmo denominare «inflattivo»: la perdita di valore semantico di certe situazioni drammatiche costringe al loro rigonfiamento, ma quando si arriva al limite di sopportazione o di percezione di una situazione drammatica come categoricamente identica ad altre precedenti, ecco che si produce una ovvia deformazione della struttura morfologica parziale o complessiva. E si finisce per compiere un definitivo salto nella parodia. Pochi si sono chiesti come mai, nel cinema italiano, sia esistito un così alto numero di parodie del cinema stesso (o della televisione) (17).

L'ipotesi di un remake inteso come parodia tout court è proposta in un saggio di Lorenzo Pellizzari, il quale sostiene che «il remake non è altro che una parodia in senso lato, anche quando essa risulta involontaria e anche quando il riferimento non ha dichiaratamente intenzioni burlesche».

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