Hector, Edda, Agnes e Testadigomma si mettono in fila orientati verso il bordo del tetto, uno alla volta prendono la rincorsa e si tuffano nel vuoto. Precipitano giù per quasi dieci metri, si schiantano nelle aiuole, si rialzano e ridono a crepapelle, con una mano spazzano via la polvere dalle gambe e dalle braccia. È così che sono felici.
Testadigomma è contento quando lo vado a trovare, saluta i famigliari e viene a fare un giro con me. Spesso nel parcheggio sotterraneo troviamo qualche carrello abbandonato e ci divertiamo un sacco, mi dimentico pure di non avere una testa e un cuore vero. Testadigomma sale nel carrello, lo spingo, prendo via via la rincorsa fino a farlo schiantare contro il muro. Più è forte lo schianto, più ridiamo. Ma questa sera non ho voglia di parlare con nessuno, né di camminare, né di giocare con Testadigomma. Resto in vetrina. Dovrei raggiungere Fake al negozio di animali e portarlo un po' a spasso. È il mio turno, non mi va.
«Che ci fai ancora in vetrina?»
È Ginevra, tornata indietro a cercarmi.
«Non ho voglia di allontanarmi» dico.
«Dovremo stare qui anche domani e nei prossimi giorni, faresti meglio a goderti un po' di riposo. Dài, vieni con me sul tetto! È una splendida notte. Dovresti vedere la città come è bella.»
Sul lato opposto del tetto, in lontananza, le piccole sagome della famiglia di Testadigomma sono impegnate nei soliti salti nel vuoto. La città, lontanissima, è una brace di luci colorate, alcune fisse, alcune intermittenti. Il bagliore è simile a quello che più in alto ci regala la Luna.
«Non trovi che sia bello tutto questo?» domanda Ginevra, seduta accanto a me.
«Sì, hai ragione, la città degli umani è un grande spettacolo.»
Rimaniamo uno accanto all'altra in silenzio per alcuni minuti, poi Ginevra dice: «Ora puoi dirmi cosa c'è che non va? Posso aiutarti in qualche modo?»
«Nessuno può aiutarmi, cara Ginevra. Ti ringrazio comunque per la tua premura.»