Compresi allora, e fu come ricevere una carezza, che Ada per tutto quel tempo mi aveva conservato in una specie di serra. Ero stato il fiore prediletto di Ada, quello incapace di distinguere le stagioni, quello incapace di sopravvivere al caldo e al freddo, quello con le radici esili che non sanno affondare nella terra dura e che non sa aprirsi a primavera. Facevo parte della sua distesa di fiori e mi aveva sempre amato con la silenziosa ostinazione dei semi.
Una mattina mi svegliai presto, Ada non era più nel letto, il cuscino e le lenzuola avevano già perso il suo calore. Nello specchio del bagno incrociai un vecchio stanco, ma sereno. Uscii da casa scalzo, in vestaglia, il vento mi accarezzava il viso, mi spettinava, poi scese giù a valle e scatenò onde nei campi di fiori che si inseguirono fino all'ultima collina. Ada era distante, camminava sulla linea che divide il cielo dalla terra. Era una piccola sagoma che si muoveva lenta e che pure dominava quei campi. Mi incamminai verso Ada, affondai i passi tra i fiori, risalii la collina fino a giungere a pochi passi da lei. Volevo dirle che mi sentivo una merda, che l'amavo, che mi ero innamorato di lei per la seconda volta, della sua nuova bellezza, quella che non muore. Proprio ora che eravamo forse troppo vecchi per recuperare il tempo, per restituire i baci dovuti, per giustificare le promesse non mantenute. Ora che la pelle era troppo ruvida per assorbire carezze, ora che i denti non sapevano più spezzare le croste, ora che il sonno ci allenava alla morte. Ora che la prostata mi aveva trasformato in un ridicolo Amleto che passava ore davanti alla tazza del cesso con il pisello in mano a snocciolare gli essere o non essere. Ma non ebbi il tempo di aprire bocca. Ada sorrise e domandò: «Che ti succede? Sei caduto dal letto?»
«Senti Ada, io...»
«Sei arrivato giusto in tempo. Prendi quella pala e scava una buca. Ho deciso di piantare qui una fila di ciliegi.