Non so se l'odio nei confronti di tua madre si sia attenuato con gli anni e mi spiace dovertene parlare, non vorrei ferirti, ma Raimond e Petra, dopo aver ascoltato tutta la storia, hanno detto: «Glielo dovresti raccontare. È giusto che lei lo sappia». Lo hanno ripetuto più volte. Proprio per questo ti scrivo. Fino a ieri in verità non avevo mai dato tanto peso all'episodio, perché si riferisce proprio a quella semplice melodia che suoni alla fine di ogni concerto. So che la suoni sempre, in ogni parte del mondo, anche quando non posso ascoltarla. Che sia un pezzo di Liszt, Chopin, Rachmaninov... alla fine suoni sempre la melodia dedicata a me. So che è il tuo modo di dimostrarmi un affetto perenne e incondizionato: «Perché senza di te non sarei mai diventata né la pianista né la donna che sono» dicesti. Ne vado fiero, ovviamente.
Le famiglie del palazzo ti contendevano per averti a pranzo quando, al ritorno dalla scuola, sedevi sulle scale in attesa di tua madre, che non arrivava mai. Ti amavamo tutti. Molti biasimavano tua madre. Uno dei condomini raccoglieva le firme per segnalare la situazione ai servizi sociali. Ti confesso che né io né mia moglie firmammo mai quel documento. Tua madre non ci sembrava una donna cattiva e verso di te mostrava affetto e apprensione, sebbene avesse seri problemi con la tossicodipendenza. Speravamo che ne venisse fuori, eravamo stupidi e illusi, lo capisco solo ora. Tua madre ti lasciava spesso sola, per ore, a volte rientrava a casa che era quasi mattina. Erano altri tempi. Potevi contare sulle famiglie del palazzo. Lasciavamo nella bacheca della portineria un messaggio per tua madre, così sapeva dove venirti a riprendere.
Credo sia successo proprio la prima volta che eri nostra ospite: tua madre bussò alla porta verso le due di notte, tu dormivi sul divano già da qualche ora.
«Scusatemi,» disse, «scusate l'ora, sono davvero mortificata.»
Questa è una storia di fantasia
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