Aveva organizzato un fine settimana in Valtellina, desiderava che ancora una volta fossimo tutti insieme, come la famiglia che eravamo stati tanti anni prima. Aveva trovato un luogo speciale, a suo dire, per celebrare un incontro così importante. Ci ritrovammo così nella Val Tartano: davanti a noi un lungo ponte tibetano sfidava il vuoto, le nostre anime sfidavano un profondo imbarazzo. Matilde era invecchiata, in contrasto con l'immagine che avevo conservato di lei, ma conservava la luce che aveva conquistato lasciando la vecchia casa. Ci salutammo quasi come estranei. Fu proprio Matilde a incamminarsi per prima sul lungo ponte sospeso nel vuoto, su una enorme gola di vegetazione verde e scura.
«Tutto questo mi imbarazza» dissi.
«Papà, ho trascorso la vita temendo di essere figlia di un errore. È così?»
«Non dire fesserie, Elena. Lo sai che io e tua madre ti abbiamo sempre voluto e amato, anche se tra noi non c'è più niente.»
«Allora a cosa sono serviti tutti quegli anni a camminare sulle travi con il rischio di cadere giù? Da dove veniva quel senso di equilibrio che non ci ha mai fatto vacillare né cadere, che non ci ha mai fatto commettere un passo falso? Cos'era quell'abilità di schivare il vuoto? Tu sai dare un nome a tutto questo?»
Non risposi e ancora oggi non conosco una risposta. Mi guardava dritto negli occhi, disse con fermezza: «Sai perché sono ancora sola? Perché un compagno che sia disposto a sfidare il vuoto con me non riesco ancora a trovarlo. Tutti vogliono la terra solida sotto i piedi. Non so se mi avete lasciato un dono o una maledizione.»
«Cosa vuoi che ti dica, Elena?»
Lei si voltò di scatto e si incamminò sul ponte tibetano. La seguii a distanza di pochi passi, un leggero vento mi ricordava la quota che stavamo sfidando e dondolava il nostro percorso.