Perfino le bombe cadevano zitte, giorno dopo giorno, e ammazzavano gente senza fare alcun rumore e crollavano i palazzi, nel silenzio totale. Il cemento armato crollava zitto, e le voragini zitte si aprivano nella terra: erano ferite senza sangue, bocche spalancate senza voce. Anche se leggevamo titoli muti dei telegiornali e sapevamo che tutto questo stava accadendo, non riuscivamo a sentire alcun rumore, nemmeno porgendo l'orecchio verso la frontiera, sebbene fosse ormai muto anche il battito di ogni cuore. Stava così zitta la guerra che era difficile da credere. È così che nei giorni a seguire la morte, zitta, si portava via milioni di persone, mute.
Verso dicembre, un giorno grigio dagli ombrelli incerti, un uomo davanti a me ha indicato le mie labbra e ha chiesto se per caso potevo parlare, perché lui non lo faveva da tanto tempo e non sapeva più distinguere il silenzio dei vivi dal silenzio dei morti. Gli ho detto che sì, anche io volevo parlare di nuovo e che il silenzio lo riconosci dal peso: quello dei morti è un silenzio leggero, che appartiene al cielo e all'innocenza; invece quello dei vivi è un silenzio pesante, che appartiene alla terra e alla colpa. Altre persone accanto a noi sentendoci dialogare hanno ripreso a parlare, gli uccelli a cantare, le stazioni ad annunciare i treni, i megafoni a gridare slogan, le automobili a rombare, i mercanti a gridare, i ghiacciai a scricchiolare, le radio a diffondere canzoni e già verso l'alba il silenzio della morte non si sentiva più.