L’inclinazione al ricorso deriverebbe allora dall’accettazione del racconto come unico – o quasi – asse di sviluppo del linguaggio cinematografico; il ricorso diventa ripetizione (o tendenza alla ripetitività) quando all’interno del racconto si sono confermati schemi, impianti collaudati con variabili previste. […] Il cinema classico ha dimostrato che il piacere dell’imprevisto è simmetrico a quello del ricorso, che c’è insomma un desiderio dello stereotipo (8).

Ed è proprio nell’ambito dei generi che lo stereotipo si annida, dove anche le storie “originali” finiscono per somigliare a quelle già raccontate.

Da un punto di vista storico occuparsi dei generi significa mettere in luce i processi di “accelerazione alla convenzionalità” propri del cinema, e quella sorta di tendenza all’eredità che esso sembra aver palesato, sia nei confronti di altri linguaggi che relativamente ai propri apparati formali. […] Alcune dinamiche, per giunta, sono se non tipiche certamente alquanto caratteristiche del cinema, in particolare per quel che attiene ai fenomeni di commistione: una volta immessi in circuito i generi finiscono frequentemente per interagire tra loro (9).

Con molta semplicità Martin Scorsese spiega e riassume quanto abbiamo detto finora:

«Se non hai una storia, allora non hai niente» diceva Raoul Walsh. Ecco un’altra regola di base. I registi americani hanno sempre preferito creare la finzione che raccontare la realtà. Inizialmente i documentari erano già stati scartati o relegati a un ruolo marginale. Nel bene o nel male il regista è un intrattenitore che ha il compito di raccontare delle storie, costretto a portarsi dietro tutte le convenzioni, tutti gli stereotipi, le formule e i cliché, e queste limitazioni erano codificate in generi specifici (10).

La carrellata che compieremo attraverso i generi, ci consentirà di mettere in evidenza dei problemi che difficilmente possono manifestarsi confrontando soltanto un film originale e il suo remake.

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