2.3 Sull'esportabilità di Fritz Lang e di un certo cinema europeo.
Nel paragrafo precedente abbiamo evidenziato, con McBride, il caso di un regista che tenta di affermarsi ricalcando le tracce di un collega d'oltreoceano. La critica, soprattutto quella contemporanea, sembra digerire malvolentieri questi esperimenti.
Veniamo ora ad un altro caso esemplare, quello di un regista americano che possiede una propria e ben definita poetica personale e che decide, sia pure con riluttanza, di rimaneggiare il capolavoro di un collega straniero, il quale è noto non solo per le qualità stilistiche, ma pure per una certa carica ideologica presente delle pellicole del primo periodo tedesco. Quando Joseph Losey, nel 1950, accetta di dirigere una nuova versione di M – sacro capolavoro di Fritz Lang del 1930 – egli ha già diretto Il ragazzo dai capelli verdi e Linciaggio, e nonostante sia ancora lontano dalle sue opere maggiormente riuscite, dimostra di possedere una già ben determinata personalità d'autore. Losey guarda più volte il film di Lang e intuisce immediatamente il probabile esito infelice di un simile remake. Di quel film, così come poi effettivamente accade, può essere ripresentata soltanto la trama, e non lo spirito, il significato profondo.
La morale del film di Lang, realizzato quando la Germania stava decidendo se affidare le proprie sorti a un governo parlamentare o a un regime totalitario e di “riscossa nazionale”, traeva la sua forza direttamente dagli avvenimenti dell'epoca. La tragica e quasi fantastica vicenda dell'assassino psicopatico di Düsseldorf, assume, alla luce degli avvenimenti tedeschi e più in generale europei, e forse al di là di ogni intenzione di Lang, un preciso significato morale, se non addirittura polemico. Come dice anche il Kracauer, i più efferati delitti e le più fatali confusioni spirituali sono la conseguenza diretta dei cedimenti sul terreno politico (36).