Facendo nostra la lampante intuizione di Truffaut, potremmo affermare che anche Craven, utilizzando di nuovo il medesimo soggetto, libera una parte della violenza che è in lui. Tutto si rovescia, dunque, rispetto all’ipotesi caldeggiata da Brashinsky. Potremmo sostenere addirittura che sia stato Bergman, con un'operazione di evidente qualità, a celare e nobilitare un soggetto triviale. Una recensione di L’ultima casa a sinistra, complica ulteriormente le cose, perché paragona il film di Craven a Cane di paglia (Straw Dogs, 1971, di Sam Peckimpah): «di questo film L’ultima casa a sinistra riprende il meccanismo, in taluni punti tallonando molto da vicino la storia stessa, senza che però il tutto sia all’altezza del lavoro di Peckinpah» (34).

Quest’ultima somiglianza può essere ulteriormente confermata dal ruolo che la violenza riveste in entrambe le pellicole, sia pur toccando inutili eccessi nel film di Craven.

Tutte queste somiglianze finiscono per dissolversi, almeno quando ci accorgiamo che la semplicità della trama – ha ragione Truffaut – è riconducibile a quella di una fiaba.

Da notare inoltre che il plot, decisamente elementare, è usato sempre agli stessi scopi, e cioè per trattare, sia pure con diversa intensità, il tema della violenza. A questo punto, scomodiamo per un momento Ejzenstejn. Egli, negli appunti sulla messa in scena di Teresa Raquin, sostiene che «rappresentazioni ideali identiche determinano forme identiche di espressione». Ejzenstejn così spiega questo fenomeno:

Avendo interpretato Teresa Raquin come un dramma del destino, inteso da noi come indicazione simbolica […] della «fatale» condanna della piccola borghesia, l’abbiamo incarnata spontaneamente «alla maniera» scenica degli antichi greci, che avevano un rapporto simile, anche se non metaforico bensì assolutamente pratico, con la realtà (35).

arrow_back_ios22/33arrow_forward_ios
menu_bookCondividi su FacebookCondividi su WhatsApp