Ma in realtà, negli anni Ottanta, sono molti i registi americani che tentano di citare, di rifare, di imitare soprattutto lo stile di autori del passato piuttosto che le trame dei loro film. Da qui l’ipotesi di un cinema manierista; ipotesi che sarebbe durata poco, pur non essendo priva di fondamenta (30).

Probabilmente l’aspetto più importante del film di McBride sta nella difficoltà di incasellarlo in un genere cinematografico preciso. Infatti, come abbiamo visto nel capitolo precedente, di solito la trasformazione apportata dai registi ai soggetti extra-americani serve proprio a catalogarli nel genere più indicato.

E’ vero, McBride sceglie un film d’autore che, per sua natura, difficilmente rispecchia le esigenze di genere, ma è sufficiente questo a produrre un remake che travalichi il sistema dei generi? Michael Brashinsky cita un esempio completamente opposto a quello fornito da McBride: si tratta di L’ultima casa a sinistra (Last House on the Left, 1972) di Wes Craven, giudicato come un remake inconfessato di La fontana della vergine (Jungfrukällan, 1959) di Ingmar Bergman.

Wes Craven fa tutto il contrario di McBride; anziché dichiarare i suoi debiti con il prototipo originale, ne occulta addirittura qualunque possibile riferimento, fingendo che si tratti di una storia realmente accaduta e introducendo a questo scopo una nota nei titoli di testa: «Nomi e luoghi sono stati cambiati per proteggere le persone ancora vive». Nota che sicuramente contribuisce a creare l’atmosfera da “drive-in horror”, etichetta con la quale il film viene solitamente catalogato nelle videoteche americane (31).

Sottolineiamo inoltre che siamo di fronte al caso di un remake transgenerico (cfr. 1.2), che attua la trasformazione del prototipo originale in un film horror.

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