Attualmente la posizione della critica è abbastanza diversa da quella che descrive Gianni Canova nei primi anni Ottanta:
Posta difronte all’emergenza del remake, la critica (quella giornalistica e quella accademica, senza distinzioni) pare presa da vertigine pànica. Impossibilitata a smontare e valutare la fabula (già troppo nota per essere ancora analizzata), disarmata difronte a un oggetto sfuggente e alieno, essa tende ad aggirare l’horror vacui che l’assale davanti al remake assumendo l’atteggiamento al contempo più subdolo e più categorico: l’esorcismo. La “recensione” del remake (vedere per credere) segue in genere una scaletta obbligata: il confronto con l’originale (sempre risolto a svantaggio del remake), l’escursione eziologica alla ricerca dei motivi ultimi che originano tanti “rifacimenti” (in genere individuati nella sconsolante mancanza di idee che caratterizzerebbe la contemporaneità) e una filippica finale intrisa di nostalgia per il bel cinema di una volta che non tornerà mai più. (7)
Negli ultimi tempi la critica ha sicuramente fornito contributi utili allo sviluppo degli studi sul remake, soprattutto nel contesto del cinema americano, dove il rifacimento, come vedremo nel primo capitolo, è connaturato nel sistema dei generi.
Gli studi, soprattutto tra gli esperti di lingua anglofona, hanno conosciuto una profonda innovazione. Basti considerare i primi testi dedicati all’argomento (8), consistenti per lo più in lunghi elenchi di titoli, i quali, pur segnalando l’esigenza di uno studio approfondito, sembrano voler demandare ad altri, o ad altri tempi, il compito e la responsabilità di interpretare il fenomeno del remake.