Hero Image

Complicarsi la vita scrivendo racconti in romanesco

di Antonio Agrestini
scartafaccio@libero.it
Scrivere storie in romanesco nell'epoca che ci vorrebbe tutti anglofoni è una scelta anacronistica o almeno stravagante. Il dialetto, al contrario dell'inglese, taglia fuori ampie fette di pubblico, anche tra gli italiani stessi. Scrivere in dialetto – almeno apparentemente – significa farsi da parte, uscire dal mucchio, parlare a pochi. Significa anche sfidare polemiche infinite (e sterili) dei sostenitori e dei detrattori del romanesco: i primi, chiamiamoli puristi, convinti – non so come – che nella Roma di oggi ci sia ancora chi parla come Belli o Trilussa; dall'altra i detrattori, che lamentano di non comprendere il dialetto capitolino, nemmeno quello più moderno e moderato, al punto da esserne addirittura infastiditi, anzi manifestando una vera e propria avversione alla romanità vissuta da loro un po' come un'invasione culturale a lungo perpetrata dalla televisione e dal cinema ai danni del resto d'Italia, almeno fino all'avvento della tivù commerciale che ha ristabilito un certo bilanciamento con i dialetti del Nord. A testimonianza di questo attrito ci sono anche esempi più illustri del mio: basta leggere molti dei commenti rivolti a Zerocalcare.

Riconosco che, almeno nella lettura, l'eccesso di apostrofi e di accenti in un testo dialettale è certamente fastidioso, crea problemi anche a me che lo scrivo, manda in tilt i correttori automatici, tuttavia il romanesco – e questo è un dato oggettivo – usa lo stesso vocabolario della lingua italiana. Forse il romanesco, soprattutto quello attuale, non è nemmeno davvero un dialetto; lo spiega molto bene Tullio de Mauro citando Moravia: «piuttosto che un dialetto è una forma di italiano sfatto.»

Ecco, è proprio questa idea di «italiano sfatto» che mi affascina, perché dona al testo un senso di tessuto consumato, di muro scrostato, di usura; aiuta a delineare la psicologia di personaggi disincantati e stanchi del mondo. Oserei dire che il romanesco assomiglia più a uno slang che a un dialetto e, proprio per questo, fornisce un livello espressivo impossibile da riprodurre con la lingua italiana. Come tutti i dialetti nasconde in sé una visione del mondo: nell'intimità cede il posto alla formalità della lingua ufficiale, un po' come quando, per stare più comodi appena tornati a casa, togliamo l'abito elegante e le scarpe e indossiamo il pigiama e le ciabatte. Ecco, il dialetto è una lingua in pigiama, una lingua intima, rilassata, è la lingua dell'affetto delle madri o quella che ci lega agli amici più stretti. Proprio per questo il dialetto a qualcuno può apparire fastidioso: è confidenziale, abbatte le gerarchie, schiva le barriere. Il dialetto è spesso percepito come limite o come segno distintivo di specifiche classi sociali: è anche la lingua dei non scolarizzati, degli emarginati, dei più poveri, degli ultimi della classe, dell'ospite che non sa comportarsi bene a tavola. Ecco allora che il dialetto potrebbe anche rivelarsi una scelta di campo, una indiretta dichiarazione politica. Ma evitando di cadere in un eccesso di sofismi, il romanesco è lo strumento più efficace per allestire dialoghi credibili o, quando usato per la voce narrante, per stabilire un rapporto più intimo con il lettore. A me non interessa che i miei personaggi siano "romani de Roma", ma che siano verosimili, credibili, anche nei contesti più surreali. Anzi, spesso proprio le storie surreali raccontate in romanesco hanno un impatto significativo sul lettore, forse proprio per il contrasto così forte tra una lingua realistica e una situazione inverosimile. Insomma, quello che per semplicità chiamo romanesco, a me va bene pure che sia definito in altro modo: mi interessano gli obiettivi, non il mezzo linguistico in sé. Il mio dialetto non è un souvenir, un omaggio a Roma o alla romanità, ma è solo uno strumento in grado di esaltare alcuni aspetti del testo. L'italiano è, per sua natura, una lingua letteraria, alta, colta, mentre i miei testi vogliono essere antiletterari, privi di ambizioni culturali e intellettuali. Se volessimo paragonare la letteratura alla cucina, i testi in italiano sono il piatto dello chef stellato, quelli dialettali (almeno i miei) sono il piatto della casalinga, preparato giusto per sfamare.

A tutto questo si aggiunge il problema davvero frustrante della corretta trascrittura del romanesco, perché non esiste una regola precisa e ufficiale di come riportare il dialetto sulla pagina e anche in questo caso ci sono varie scuole di pensiero in eterno contrasto. A me, ad esempio, non convince l'uso delle doppie a inizio parola, perché lo trovo caricaturale: "stai bbono" al posto di "stai bono". Sono anche un sostenitore del verbo "ciavere", quindi "tu ciai" contro "tu c'hai" o "noi ciavemo" al posto di "noi c'avemo". Ma qui ritorniamo al mio totale disinteresse per la dialettologia e alla definizione di "italiano sfatto" che, forse, è l'unica lingua che davvero mi ispira.

Le mie prime due raccolte di racconti dialettali sono ormai fuori catalogo: Il coccodrillo mangiapiedi (Bibliotheka Edizioni, 2018) e Alimortè (Youcanprint, 2021) ma si possono leggere on line su https://storie.scartafaccio.it o, su richiesta, posso fornirti versioni digitali dei vecchi racconti. Senza alcuna regolarità pubblico nuovi brevi racconti dialettali sul mio profilo Facebook.

Registrati alla newsletter

Ho letto e compreso il documento sul trattamento dei dati personali e la privacy policy.